rivista di marzo 2000


 

 

La “santa” violenza


Luce dello Spiritoo Gesù
(Gianfranco Ravasi)

La nostra mentalità fatica a comprendere i salmi cosiddetti “imprecatori” e una lettura superficiale ne allontana un'autentica interpretazione. In realtà, essi sono espressione di profonda avversione contro il male e l'ingiustizia e manifestano il desiderio dell'intervento giusto di Dio.

«Acclamino i hasidim nella gloria, facciano festa sui loro giacigli. Le lodi di Dio sulla loro bocca, la spada a doppio taglio nella loro mano per far vendetta tra i pagani, rappresaglie contro le nazioni, per stringere in catene i loro re, i loro nobili in ceppi di ferro, per eseguire contro di essi il giudizio già scritto: questo è un onore per tutti i hasidim!» Così, sul modello della «croce in una mano e della spada nell’altra», s’avanzavano cantando i hasidim, cioè "i pii, i fedeli" ebrei durante la ribellione contro il re ellenista di Siria, Antioco IV Epifane, ribellione ordita dai Maccabei, tra i quali spiccava Giuda (seguito dai fratelli Gionata e Simone), le cui gesta sono esaltate retoricamente ed epicamente nei due libri dei Maccabei. «In quei giorni — si legge nel primo di quei libri — ai Maccabei si unì il gruppo degli Asidei (cioè i hasidim), eroi d’Israele, tutti volontari della Legge» (cf 1 Mac 2, 42). Il canto che abbiamo citato è riportato nel Salmo 149, ed è probabilmente l’inno di battaglia e di fede di questi combattenti del II secolo a.C. per la libertà religiosa e politica d’Israele.

Presentati come sacerdoti della guerra santa, i hasidim sono gli eredi di una santa violenza che pervade non poche pagine dell’Antico Testamento e che ha creato molte difficoltà, non solo alle anime belle, ma alla stessa tradizione teologica cristiana, talora tentata "ereticamente" di rimandare l’intero Antico Testamento sotto l’egida di un Dio negativo e violento, dualisticamente opposto al Dio cristiano dell’amore. I santi militari cantano inni «sui loro giacigli», nelle notti d’attesa, prima delle loro battaglie. E all’alba, eccoli, coi canti d’Israele in bocca e con le mani che impugnano la micidiale spada a doppio taglio. I cavalieri di Sion si scagliano nella mischia, implacabili, scatenando rappresaglie, incatenando re e generali, convinti dell’appoggio di Dio di cui eseguono «il giudizio già scritto». Ma nella loro voce sembra echeggiare un altro grido, quello degli Ebrei esuli di quasi quattro secoli prima, che contro l’oppressore babilonese scagliavano questa beatitudine sarcastica del massacratore: «Figlia di Babilonia devastatrice, beato chi ti renderà il contraccambio di quanto ci hai fatto! Beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra!» (cf Sal 137, 8-9). La furibonda imprecazione, formulata secondo la legge del taglione, evoca una truculenta prassi orientale delle conquiste militari: i bambini sfracellati contro i massi e lo sventramento delle donne incinte volevano provocare, simbolicamente e concretamente, la fine di un popolo nelle sue stesse radici.

Risalendo lungo il fiume della storia biblica si può giungere sino alla conquista della terra promessa, accompagnata da un cumulo di sacre efferatezze: «Giosuè ordinò al popolo: lanciate il grido di guerra perché il Signore consegna in vostro potere la città di Gerico! Quanto è in essa sia votato allo sterminio per il Signore… State lontani da ciò che è votato allo sterminio e non prendete nulla di ciò che è votato allo sterminio per non rendere votato allo sterminio lo stesso accampamento d’Israele… Votarono allo sterminio la città, passando a fil di spada ogni essere ivi residente, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, ma anche il bue e l’asino». Echeggia nel racconto del libro di Giosuè (cf 6, 16-18.21), quasi come in un lugubre ritornello, l’espressione «votare allo sterminio», basata sul vocabolo herem (presente anche nell’arabo harem, da noi usato) che di per sé indica una realtà intangibile perché di proprietà divina o superiore e, per traslato, una realtà da sacrificare, da estinguere totalmente in un olocausto offerto al legittimo proprietario, Dio, il condottiero nella guerra santa.

Oltre la violenza ...

Questa visione "militare" del Signore ha creato uno sconcerto tale che ancor oggi il Concilio Vaticano II ha evitato l’uso nella liturgia dei cosiddetti "Salmi imprecatori", carichi di invettive e di fulmini: «Dio, spezza loro i denti in bocca, rompi, Signore, le loro zanne da leone. Si dissolvano come acqua e con essa si disperdano! Passino come la bava della lumaca che si scioglie, come aborto di donna non vedano il sole. All’improvviso li strappino via rovi spinosi o belve o incendio! Gioisca il giusto nel vedere la vendetta, lavi i suoi piedi nel sangue degli empi!» (cf Sal 58, 7-11; si veda anche il Salmo 109). Uno sconcerto che evoca certi fantasmi, ad esempio il «Gott mis uns» dei nazisti, quando si legge l’arcaico grido di guerra degli ebrei nel libro dell’Esodo: «Jhwh è il nostro vessillo di guerra» (Es 17, 15) e così via per tanti altri passi anticotestamentari.

Come giustificare il fatto che tante sante crudeltà e violenze facciano parte di un libro sacro, considerato dai credenti ispirato da Dio e «lampada per il loro passi» nel cammino della vita? Molte giustificazioni delle guerre di religione si sono basate su tali passi e i lettori fondamentalisti della Bibbia devono o abbandonare la loro interpretazione "letteralista" o allegramente dedicarsi a compiere stragi contro il nemico infedele, cosa che non di rado fanno, limitandosi però oggi alla violenza verbale. In realtà queste pagine meritano un’interpretazione corretta che non le "schiodi" dalla propria storicità, ma neppure le canonizzi automaticamente nel loro tenore immediato. La via maestra per comprendere simili testi marziali e violenti è ancora una volta quella di tener presente la qualità strutturale ed essenziale della Rivelazione biblica: essa è per eccellenza storica, cioè innestata nella trama faticosa e tormentata della vicenda umana. Non è una parola sospesa nei cieli e comunicabile solo estaticamente, ma è concepita come un germe che si apre la strada sotto il terreno sordo e opaco dell’esistenza terrena. La Bibbia si presenta come storia progressiva d’una rivelazione progressiva del senso della nostra storia apparentemente insensata o per lo meno convulsa e confusa.

In questo progetto generale della Scrittura le pagine violente sono la rappresentazione di un Dio paradossalmente paziente che, adattandosi alla brutalità e al limite dell’uomo, cerca di condurlo verso un altro orizzonte. È per tale motivo che, accanto al herem si trovano espressioni di compassione, di amore e di apertura nei confronti dello straniero, fino a far balenare un certo universalismo e a raggiungere un ideale di tolleranza: «Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza, ci governi con molta indulgenza. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare l’umanità» (Sap 12, 18-19). Non bisogna poi ignorare un dato a prima vista banale e scontato ma utile per un corretto ridimensionamento del fenomeno bellico sacrale. Scriveva l’esegeta americano John McKenzie nel suo Dizionario biblico: «I lettori moderni considerano la concezione ebraica della guerra santa come un genere primitivo di moralità: è vero, ma è anche vero che tale concezione non era molto più primitiva della concezione attuale della guerra».

Proprio perché legate a coordinate storiche ben precise e a una situazione socioculturale circoscritta, queste pagine violente non devono essere assunte semplicisticamente col loro rivestimento simbolico, ma devono essere "smitizzate" per isolare alcuni valori ritenuti capitali da Israele. Pensiamo, ad esempio, alla costante premura di salvaguardare la purezza della fede e della propria identità religiosa. In una religiosità simbolica la preoccupazione principale nel risparmiare qualcosa alla distruzione militare non era legata a motivi umanitari, e neppure a interessi economici immediati, quanto piuttosto a ragioni che la Bibbia considera di lotta all’idolatria. Conquistare gli idoli del popolo vinto significava allargare la propria sfera di protezione divina e arricchire il pantheon del dio nazionale. È per questo che si richiede la distruzione sacrificale della preda di guerra: «Radunerai tutto il bottino e lo brucerai nel fuoco come sacrificio per il Signore tuo Dio» (Dt 13, 17). L’"anatema" o herem è come un grande olocausto offerto a chi ha guidato Israele nella vittoria: tutto dev’essere consumato dal fuoco e chi sottrae qualcosa per idolatria o egoismo compie un sacrilegio. Certo, è sempre una via primitiva e superabile per educare all’autenticità e alla purezza religiosa, ma essa nasce, si svolge e si spiega nell’ambito di una mentalità abituata al concreto, al mondo dei simboli e legata a una particolare società e cultura.

Questa mentalità ben definita si esprime, tra l’altro, attraverso un linguaggio che ama l’eccesso, l’esasperazione dei toni, i colori accesi, l’uso di immagini barocche o surreali. Il repertorio pittoresco di imprecazioni che intarsiano il Salmo 58 o il 109 va ricondotto e compreso all’interno del linguaggio orientale che ama la sottolineatura, l’incisività, l’impressionismo. È proprio sulla base di questa struttura culturale che il male dev’essere sempre incarnato in un avversario concreto, anche quando è un’entità sociale o metafisica. Detto in altri termini, l’odio per il male e l’ansia per la giustizia si manifestano pienamente scagliandosi contro nemici rappresentati come vivi e concreti, ossia personificati.

I Salmi imprecatori esprimono la loro passione per il bene e il loro schierarsi per la giustizia attaccando un male personificato nei "nemici", un’esigenza, questa, dettata dalla propensione semitica alla concretezza e non all’idealizzazione. La stessa concezione di Dio come generale supremo, che offre al suo popolo quasi su un vassoio le città conquistate, è una modalità simbolica per indicarne la personalità. Dio non è un’energia cosmica misteriosa, non è un’entità vaga o un essere mitico, ma per la Bibbia è una persona che agisce, che entra nella storia, che si schiera, opera, interviene, rivelandosi dotata di passione e volontà, di comprensione e amore. L’idea dell’anatema o herem ci conduce, quindi, a un’immagine divina personale, morale, vivente, anche se la via adottata per disegnarla è ai nostri occhi fastidiosa e faticosa da accettare.