Una piccola ostia racchiusa in una teca di vetro: un confine
troppo stretto per un Dio, creatore del mondo, autore della vita. Il Roveto
ardente di misericordia rischia di spegnersi come un fiammifero bagnato dalle
lacrime del disincanto e della disperazione. La pesantezza del fardello di
ciascuno, l’aspettativa del cuore, del corpo e della mente attirano verso il
basso quel sottile lembo di paradiso dal sapore di pane, dal profumo di buono.
Ma ecco, imprevisto, più del desiderio, oltre
l’immaginazione, il prodigio: l’adorazione del popolo di Dio – guidata dal
consigliere spirituale nazionale don Guido Maria Pietrogrande e dal
coordinatore nazionale Mario Landi – si colora di una lode pura, che ricapitola
il passato, il presente e il futuro. Non chiede niente per sé, ma è rapita da
uno sguardo d’amore che riconosce il volto, il nome e la storia di ognuno; non
desidera la soddisfazione di un bisogno, ma è attirata da un fianco squarciato
da cui gronda un fiume di grazia e di misericordia. Lo spazio e il tempo si
dilatano e ogni cosa, ogni situazione, ogni ricordo sono compresi e
abbracciati. Niente è escluso, tutti sono dentro, pronti a lanciarsi in un salto
dall’alto, senza rete, perché il Dio della presenza è lì ad accogliere, per
consentire a chiunque di spiccare il volo, mentre le ali dello Spirito
sgombrano il cammino dai sassi che ostacolano, dal movimento pigro di morbide
nuvole su cui sostare oltre il dovuto.
Una sola vertigine: la gioia pura, che
fa sciogliere la durezza di un cuore disabituato a tuffarsi, che infonde
coraggio, liberando dalla retorica dei riti e delle formule e donando la
semplicità di parole nuove, cure premurose, tenere carezze che si abbassano
fino a terra, aprendo spiragli di speranza oltre il buio della paura.
Le sensazioni e le emozioni si susseguono come un fiume in
piena, ma senza il disordine dell’impeto, in un silenzio che vibra sussurri d’amore,
echi lontani noti da sempre, che aprono squarci e prospettive di pace.
Non c’è bisogno di capire, almeno non tutto, ma solo di
reggere lo sguardo, il tuo sguardo, Dio, che mi riconosce: io in te, tu in me,
frammenti di un dialogo amoroso mai interrotto, attimi di un tempo continuo,
che realizza l’eternità solo se s’impregna del finito di una vita donata e
restituita, solo se sporca le mani degli angeli e dei santi nell’esistenza dell’uomo.
Io in te, tu in me, Gesù, ma dopo la sosta di questa ora in
una sala gremita di gente che è salita senza accorgersene alla vetta del Tabor,
che ha toccato il cielo senza perdere le radici, il mio me è molteplice, una
unità indivisa pronta a spezzarsi, un fuoco che arde senza bruciare, un roveto
fiorito in un deserto guarito.
Daniela Novi