Di seguito pubblichiamo il testo integrale dell'intervento
di Salvatore Martinez, Presidente del RnS e della Fondazione
Vaticana "Centro Internazionale Famiglia di Nazareth", pronunciato
nella sessione delle ore 11.45 del Congresso dell'VIII Incontro Mondiale
delle Famiglie di Philadelphia, sul tema "La via della croce, la
via del cuore: la sofferenza e la famiglia". Nella sessione in lingua italiana, moderata dal card. Willem Jacobus (Wim) Eijk, della diocesi di Utrecht, è intervenuto anche mons. Fouad Twal, Patriarca di Gerusalemme dei Latini. Tra i partecipanti, l'intera delegazione italiana del Rinnovamento nello Spirito Santo.
The Way of the Cross, the Way of the Heart: Suffering
and the Family
La
Via della Croce, la Via del Cuore: la Sofferenza e la Famiglia
Dott. Salvatore Martinez
Presidente del Rinnovamento nello
Spirito Santo
Presidente della Fondazione
Vaticana "Centro Internazionale Famiglia di Nazareth"
La sapiente cattedra del dolore
La nostra esistenza umana include, sempre, una duplice
condizione: la conoscenza del soffrire e, al contempo, un inesauribile anelito
di gioia. La Scrittura definisce Gesù «l'uomo
dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53, 3).
È proprio dal soffrire di Cristo che deriva l'arte
della misericordia e della compassione cristiana, quella meravigliosa scuola di
umanità che agli uomini è data l'opportunità di esperimentare in modo speciale proprio
nella famiglia. Come è insopportabile la vita quando un uomo si vede condannato
ad una mortale solitudine! Per questo afferma il Qoelet: «Guai a chi resta solo» (4, 10), facendo eco a ciò che sin dalla
creazione Dio dice: «Non è bene che
l'uomo sia solo» (Gen 2, 18).
Niente più della sofferenza appartiene al mistero
dell'uomo, al mistero della vera vita, perché la sofferenza è la via che più di
altre "svela pienamente l'uomo all'uomo e
gli fa nota la sua altissima vocazione" (Gaudium et spes, n. 22).
Un celebre scrittore cattolico francese, G. Bernanos,
nel suo libro La gioia, afferma: "Chi
cerca la verità dell'uomo deve farsi padrone del suo dolore". Parafrasando
questa espressione possiamo dire: "Chi cerca la verità della famiglia deve
farsi padrone delle sofferenze che la animano".
Alla scuola della sofferenza l'uomo è e sempre rimarrà
un apprendista. Eppure nessuno conosce veramente se stesso, né saprà mai, fino
in fondo, farsi padre, madre, figlio, fratello o sorella, cioè "prossimo"
nell'amore familiare, finché non ha sofferto e non riesce a dare un valore
salvifico alla sofferenza.
Niente, più del dolore umanizza e risveglia l'uomo dal
sonno spirituale in cui spesso si confina. Niente più del dolore apre le porte
al divino, perché svela all'uomo che l'ultima parola di Cristo non è morte, ma
vita.
Al tema della "fragilità" della famiglia dinanzi alle
sofferenze e alle ferite della vita, Papa Francesco ha dedicato quattro catechesi
nel corso delle Udienze generali del mercoledì (10 giugno "Famiglia e
Malattia"; 17 giugno "Famiglia e Lutto"; 24 giugno "Famiglia e Ferite I"; 5
agosto "Famiglia e Ferite II").
Così si esprimeva nella prima
catechesi: «Di fronte alla malattia,
anche in famiglia sorgono difficoltà, a causa della debolezza umana. Ma, in
genere, il tempo della malattia fa crescere la forza dei legami familiari. E
penso a quanto è importante educare i figli fin da piccoli alla solidarietà nel
tempo della malattia. Un'educazione che tiene al riparo dalla sensibilità per
la malattia umana, inaridisce il cuore. E fa sì che i ragazzi siano
"anestetizzati" verso la sofferenza altrui, incapaci di confrontarsi con la
sofferenza e di vivere l'esperienza del limite» (Udienza generale, 10 giugno
2015).
Nella sofferenza è l'esistere e il resistere dell'uomo
In ogni famiglia c'è una permanente memoria del vivere
proprio nel dolore che soffriamo o a cui assistiamo. Una memoria che è fatta di
storie, di sogni infranti, di ricordi collettivi, di piaceri, di paure, di
persone care, di miserie, di immagini, di incontri, di scontri, di offese, di
abbandoni, di ritorni. Nella sofferenza c'è tutta la grammatica della nostra
vita, la più concreta, credibile e
attraente liturgia che si celebra ogni giorno nella "piccola chiesa domestica"
che è la famiglia.
È un luogo sacro la sofferenza; un luogo che
bisognerebbe calpestare a piedi scalzi, come Mosè dinanzi al miracolo del
Roveto Ardente, l'amore di Dio che brucia senza consumarsi. Un luogo sacro, da
accostare con timore e stupore, dinanzi al quale nessuno può dirsi inospitale.
Certo, nessuno, vedendo una malattia la preferisce o la desidera; ma non per
questo può ignorarla, giudicarla o rigettarla come una maledizione da cui
tenersi lontano. Chi elude la propria responsabilità dinanzi al male, proprio o
altrui, è il vero inguaribile malato.
La sofferenza denota il nostro senso di attaccamento
alla vita, il bisogno dell'altro, l'insopprimibile anelito di felicità che è
nell'uomo; ed è già anticipo di eternità, come ci ha insegnato Gesù nelle
Beatitudini.
Parafrasando un'espressione di un celebre ateo
comunista convertito al Cristianesimo, Andreè Frossard, che è anche il titolo
di un suo celebre libro,- "Dio esiste, io
l'ho incontrato" - noi possiamo affermare: "Il male esiste, noi ne facciamo
esperienza ogni giorno".
Scandalo è il male, ma ancora più scandalosa è una
vita incurante dei mali che portano l'uomo, una famiglia a soffrire senza
speranza, a soffrire nella sola prospettiva della morte senza consolazione,
senza guarigione, senza liberazione dal male, senza vittoria di Cristo sulla
morte, senza l'aspettativa della risurrezione e della vita eterna
Per mezzo della croce la nostra
glorificazione
Nel nostro tempo, come in ogni secolo, molti continuano a
rifiutare la salvezza di Gesù perché non accettano la sofferenza.
Non si può meritare la salvezza senza sofferenza, senza
rimanere uniti a Gesù nelle prove che ci affliggono. Solo così la luce, Cristo, «trasforma davanti a noi le tenebre
in luce» (Is 42, 16) e redime i nostri mali. Dice infatti il Signore: «Al tempo della misericordia ti ho
ascoltato, nel giorno della salvezza ti ho aiutato» (Is 49, 8a).
Chi si adagia sulla croce di Gesù si unisce alla Sua
sofferenza. Non è un disgraziato, un maledetto, un rinnegato come vorrebbe il
mondo. È, piuttosto un salvato!
Il celebre prologo
giovanneo «Il Verbo si è fatto carne ed è
venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14), risuona per noi oggi così: «Il Verbo si è fatto croce ed è venuto a
morire in mezzo a noi».
Ascoltiamo
un brano apologetico sulla croce, di grande suggestione, tratto dalla
Tradizione dei Padri Orientali: "Nessuno
si vergogni dei segni sacri e venerabili della nostra salvezza, cioè della
croce. La croce è la somma e il vertice dei nostri beni. Tutto ciò che ci
riguarda si compie e si consuma attraverso di essa. È la croce infatti che ha
salvato e convertito tutto il mondo; è la croce che ha bandito l'errore; è la
croce che ha ristabilito la verità; è ancora la croce che ha fatto della terra
cielo, e degli uomini angeli. Grazie alla croce i demoni hanno cessato di
essere temibili e sono divenuti disprezzabili; la morte non è più morte, ma
sonno dal quale ci sveglieremo in cielo" (Crisostomo Giovanni, Commento al Vangelo di san Matteo,
54,4-5).
La croce, dunque, non è il segno che Dio rinnega i Suoi
figli. La croce non è la diminuzione del Suo amore. La croce non è privazione
della promessa di Gesù di una gioia piena sulla terra. La croce ci fa vedere
chiaramente "chi" siamo e "cosa" possiamo diventare, se lasciamo morire in noi
tutto ciò che non glorifica il Padre.
Chi non sa stare dinanzi alla propria croce, non potrà
neanche portarla, perché nessun cristiano può definirsi tale e pensare di non «portare la propria croce e
seguirlo» (cf Mt 16, 24). Ma chi non sa stare ai piedi della croce dei fratelli,
non è neanche degno di Gesù.
La Croce non
è soltanto il segno della nostra vita in Dio e della nostra salvezza, ma è
anche la testimone verace e muta dei dolori degli uomini e, allo stesso tempo,
l'espressione unica e preziosa di tutte le loro speranze, specie dei piccoli e
degli ultimi della terra, coloro che sembrano sperare senza speranza.
San
Giovanni Maria Vianney, più noto come "il Curato d'Ars", ben ci aiuta ad
accettare il significato di questo martirio del cuore: "La Croce è il libro più sapiente che si possa leggere. Coloro che non
conoscono questo libro sono ignoranti, anche se conoscono tutti gli altri
libri. Quanto più si è alla sua scuola, tanto più si vuole rimanervi. La paura
della Croce è la nostra grande Croce; tutto va bene se portiamo bene la nostra
Croce: fuggire la Croce è volerne essere oppresso; accettarla è non sentirne
l'amarezza. Chi ama Dio è felice di poter soffrire per amore di colui che ha
accettato di soffrire per noi" (in "Scritti scelti" a cura di Gérard Rossé).
Non può essere eliminata, la croce, può essere glorificata,
perché ci procura, in Gesù, la nostra glorificazione.
La croce, svelamento di un cuore
amante che rischia tutto
"Cristo ha vinto perché ha
rischiato tutto e ha mostrato che nulla è più forte dell'amore del prossimo", annotava nel suo diario, nel
lager nazista dove sarà impiccato, il teologo Dietrich Bonhoeffer.
La
croce di Gesù mette a nudo la nostra fede; la croce spoglia la fede di ogni
pretesa fuori da Cristo e riveste la fede della carne gloriosa di Cristo.
Niente più della croce rende incarnata la nostra fede; niente, come il legno
della croce piantato sulla roccia, rende più stabile e sicura la nostra fede. Non
è vera fede se non libera profondamente, pienamente, la nostra libertà umana,
come nell'estremo gesto d'amore del Crocifisso.
Quanti
attentati alla conoscenza di Cristo; quanto svilimento di senso e di prassi nel
presentare la persona di Gesù e il Suo Vangelo: così l'umanità precipita nelle
tenebre della non conoscenza di Dio. Per salvare l'uomo è necessario riportare
Dio nel cuore e nella storia dell'uomo. Non sarà il potere mondano a salvare
l'uomo, non sarà l'economia a sfamare l'uomo: solo Dio può salvare l'uomo; e
Dio, il Dio vivo e vero, entra nella storia percorrendo la via dell'umiltà e
della semplicità, dalla grotta alla croce.
Occorre riportare Dio nel cuore degli
uomini, aiutare gli uomini a riappropriarsi della propria identità recuperando
l'intimità con Dio, così tanto trascurata dal frenetismo e dall'attivismo del
nostro secolo.
«Cercare il nutrimento per il
cuore è volgersi verso Dio, perché Dio stesso è un cuore che abbraccia tutto. È
solo con il cuore che si può conoscere il segreto dell'universo. Chi ha il
cuore percepisce Dio, gli uomini, gli animali, la natura. Solo il cuore è
capace di dare la pace allo spirito" (P.
Ivanov, teologo russo, in La pace in
Cristo).
L'uomo
"senza cuore" è un uomo senza amore, senza religione, perché in fin dei conti
l'ateismo è vivere senza cuore. È atea una politica senza cuore; è atea
un'economia senza cuore; è atea una cultura senza cuore; è atea una solidarietà
umana senza cuore; è atea una famiglia senza cuore. "Dio è amore", non un
sentimento cieco, senza gli occhi della ragione; non è un'emozione illogica, un
sorta di tuffo nell'acqua profonda da cui poi non si tira più fuori la testa.
Serve
un supplemento di cuore; urge che la verità dell'amore di Dio sussulti nel
petto!
Ciò
che, in quanto cristiani, dovrebbe preoccuparci, è rendere credibile Gesù
Cristo in questo nostro mondo. Ogni oscuramento o tradimento del primato di Dio
apre la porta alla disumanizzazione, ad inutili sofferenze umane.
Credere
in Gesù Cristo non significa guadagnare un talismano che immunizza la vita
umana dalle sofferenze e dalle disgrazie. Conoscere Cristo non significa
scoprire un rimedio preventivo, assicurativo, contro i malanni della nostra
esistenza presente. La grazia è sempre in segreta simpatia con la sofferenza
umana.
Non c'è amore senza passione! Non comprenderemo mai la
passione di Cristo fuori dalla passione di Dio (amore appassionato) per gli
uomini. Una passione che include anche tutte le sofferenze legate alle non
corrispondenze d'amore, che Dio ha patito e continua a patire, più di quanto
altro uomo affacciatosi sulla terra abbia mai sopportato.
Gesù
è il lato visibile, udibile e tangibile di tutte le Scritture. È una persona
viva; è il Vangelo della Vita, che associa al Suo amore di donazione ogni uomo.
Dal dolore della croce la gioia
della Pasqua
San
Paolo, nella sua Lettera ai Filippesi, ci consegna una professione di fede che
condensa, con rara bellezza e incisività, il "mistero" del Cristo, che il Padre
del Cielo ha voluto associare all'uomo, rendendo Gesù "socio" del nostro
soffrire.
«Abbiate in voi gli stessi
sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se
stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e
alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è
al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e
ogni lingua proclami che Gesù
Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 5-11).
Con
la risurrezione di Cristo, i cristiani comprendono e credono che solo la Croce
può significare la salvezza dell'uomo. Alla luce della risurrezione di Gesù, il «prendere ogni giorno la Croce» (cf Lc 9, 23) è già l'alba del nostro
mattino di Pasqua.
Noi uomini non siamo in grado di far
luce sull'abisso della sofferenza umana e della Croce: la fede, sì, può farlo.
Dopo la risurrezione del Cristo crocifisso ogni patimento umano può essere
condotto alla salvezza; ogni dolore può riposare sicuro nelle mani di Dio; ogni
croce per quanto terribile è solo "una scheggia" della Croce del Cristo.
Se l'uomo resta impenetrabile alla
luce pasquale, sprofonda nella solitudine con il proprio dolore: nessuna
parola, nessun conforto umano, nessuna medicina potranno salvarlo da questo
abisso.
Solo la fede in Gesù ci dà la grazia
di vedere come ogni giorno la via crucis si
fa via lucis, cioè la via lungo la
quale lo Spirito di Dio ci fa camminare, assicurandoci pace e gioia, i doni che
nessun tormento potrà mai spegnere, perché divini.
Con
la Pasqua, Cristo è nostro contemporaneo, sempre, per sempre! Una verità che
risuona in ogni nostro giorno terreno, feria di Pasqua, perché fuori dalla sua
risurrezione il Cristo non sarebbe più indispensabile all'uomo e al suo destino
di amore e di pace.
Nel
compiersi della Pasqua tutto il senso è dato: Gesù doveva soffrire, ma non
poteva essere vinto dal dolore umano; doveva morire, ma non poteva rimanere morto;
doveva stare in mezzo ai suoi, ma non poteva rimanere per sempre con loro.
Guardando alla nostra
esistenza umana, infatti, insieme alla croce
è la gioia della risurrezione che
bussa alla porta della vita degli uomini che soffrono e si affaticano. La gioia
dice alla sofferenza: "lasciami entrare". Ma la sofferenza tace, non apre,
perché non ha lingua per rispondere, non trova le parole per corrispondere al
linguaggio dell'amore.
"Le opere del
Signore nostro sono amarezze seguite da dolcezza, tenebre seguite da luce,
tristezze seguite da gioia; mentre quelle del mondo sono dolcezze seguite da
amarezze, luci seguite da tenebre, gioie seguite da tristezze. Conoscerà la
verità colui che avrà gustato queste cose per esperienza personale e non per
sentito dire" (Isacco il Siro).
Che cosa ne sarebbe del
Vangelo senza la passione e la morte gloriosa di Gesù? I due bracci della croce
si uniscono come i due destini, terreno e ultraterreno dell'uomo. La nostra è
la religione della croce; della croce gloriosa che regala la gioia. La nostra è
la religione della croce e, al contempo, la religione della gioia, perché il
volto dell'amore è "due in uno": -naturale e soprannaturale; umano e divino.
Quaggiù,
sulla terra, la nostra gioia includerà sempre, in qualche modo, il doloroso
travaglio dell'esperienza umana. La gioia sta alla risurrezione come il dolore
sta alla croce di Gesù!
La gioia vera, come
la croce, è lotta: dobbiamo imparare a conquistarla e ancor più a non
smarrirla. Cristo ha sconfitto la morte per regalarci la gioia; noi dobbiamo
fidarci di Cristo e, ogni giorno, chiedere a lui il segreto della vittoria. Guai a togliere la croce dalla realtà
umana!
Ogni giorno occorre costruire e ricostruire ciò che il
male o l'insipienza umana distruggono. Questo è il tempo di rendere presente,
vivente, operante la croce di Gesù, nostra gloria e nostra forza. Niente
più della tristezza, dinanzi alla croce della prova e del soffrire, alimenta l'ateismo; niente più della
tristezza rivela il volto di una Chiesa rassegnata, il volto di cristiani
impotenti.
Madre
Teresa di Calcutta non si stancava di ripetere alle sue figlie: "Non permettete mai che nulla, neanche il
dolore più grande, possa farvi dimenticare che Gesù è risorto". Se
la morte è stata vinta, tutto può essere vinto. Se Cristo ha vinto la morte,
ogni punto morto della nostra vita può essere vinto.
La vita non è bella o brutta, secondo categorie che ci
possano far dire: "se è bella la vivo spensieratamente; se è brutta posso anche
toglierla a me stesso o a chi è causa della mia infelicità". "La vita non è bella o brutta: la vita è
semplicemente originale" (Italo Calvino, La Coscienza di Zeno). Ebbene
Cristo, con la sua croce e la sua risurrezione, è la sola causa di questa
originalità per ogni uomo sulla terra.
Il Vangelo
della sofferenza, cuore della "nuova evangelizzazione"
In un tempo che genera «genitori carnefici di vite indifese» (Sap 12, 6), in cui "il fratello dà a morte il fratello, il
padre il figlio e i figli insorgono contro i genitori fino a farli morire» (cf
Mt 10, 21), si avverte il bisogno di obbedire alla parola del Signore: «Se qualcuno non si prende cura dei suoi
cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed
è peggiore di un infedele» (1 Tm 5, 8).
La
storia della salvezza è la storia della tenerezza di Dio, che ci ha amati e ha
dato la sua vita per noi (cf Gal 2, 20).
Questo Vangelo della tenerezza rivive nei genitori: essi che un giorno hanno dato la vita ai loro figli, sono spinti ogni giorno dallo Spirito a ridare la vita per i loro figli, nella
misura in cui, ogni giorno, "generano
Cristo", come affermava S. Ambrogio.
La
famiglia cristiana è tenerezza ferita, tenerezza tradita e crocifissa, ma pur
sempre e per sempre, con l'Eucaristia, l'ostensione del sacramento della
tenerezza divina, del Dio amore. Sì, nella fragile esperienza terrena di ogni
famiglia cristiana rivive la stessa fragilità della carne del Figlio di Dio.
I
Padri della Chiesa definiscono la famiglia cristiana una "comunità di pazienti", cioè di credenti che non si arrendono al
male e condividendo con Cristo il suo fallimento terreno fanno di ogni "croce
quotidiana" un anticipo di cielo, una profezia compiuta del trionfo della
risurrezione.
La
famiglia cristiana è e rimarrà in ogni tempo il migliore "laboratorio di speranza" per la salvezza di un'umanità che
dispera, perché malata d'amore.
Solo
l'amore, alla fine, rimarrà. Così possiamo dire che la famiglia è orientata al
cielo, data per il mondo "senza essere
del mondo" (cf Gv 17, 11.16). Mutuando
le parole di Gesù davanti a Pilato vorremmo poter dire che "la famiglia cristiana non è di questo mondo" (cf Gv 18, 36).
Esiste come profezia per trasformarlo, per testimoniare che "essere di Cristo"
significa divenire "bersaglio di ogni
contraddizione" (cf Lc 2, 34).
Voglia lo Spirito Santo dilatare i nostri cuori e donarci
una nuova cura d'amore per le nostre famiglie. Una famiglia cristiana che vive dello Spirito Santo
non perderà mai il coraggio; ogni impresa, come Maria, le sembrerà possibile.
Non ci perdiamo d'animo, allora, e facciamo della gioia del Cristo risorto la
nostra migliore linfa vitale. Se Cristo ha vinto la morte, tutto può essere
vinto. Se Cristo è risorto, tutto può tornare in vita. Questa deve sempre
essere la nostra speranza viva!
Un segno per le famiglie del
mondo: il "Centro Internazionale Famiglia di Nazareth"
Al
fine di dare attuazione al Magistero della Chiesa Cattolica relativo alla
Famiglia, la Santa Sede ha dato vita alla Fondazione Vaticana "Centro
Internazionale Famiglia di Nazareth" (CIFN), affidata al Rinnovamento nello
Spirito in collaborazione con il Pontificio Consiglio per la Famiglia, «al fine di dare attuazione al Magistero
della Chiesa Cattolica relativo alla famiglia» (art. 1, §1 dello Statuto) e per "costruire il sogno" di san
Giovanni Paolo II: una casa, la "casa del Papa" per tutte le famiglie del mondo
a Nazareth, dove tutto ha avuto inizio, dove Gesù ha fatto esperienza di una
famiglia umana, di una casa, di un lavoro.
Alla
Fondazione Vaticana CIFN è dato anche mandato «di promuovere la formazione spirituale e l'evangelizzazione delle
famiglie, nonché di sostenere la pastorale familiare in tutto il mondo e,
segnatamente, nella Terra Santa» (art. 2, §1).
Una
grande sfida, quella di costruire, gestire e animare la "Casa del Papa in Terra
Santa", una speciale dimora spirituale per le famiglie di tutto il mondo e un
segno di vicinanza concreta e particolare alle famiglie del Medio Oriente, di
Terra Santa, memoria vivente e benedetta delle origini del cristianesimo, nella
Terra dei nostri Padri nella fede, nella Terra di Gesù, dove troppo sangue
continua a scorrere e le famiglie sembrano rassegnate all'impotenza, sottomesse
al male e alla morte.
Un
grande progetto che impone senso di responsabilità e spirito di comunione
ecclesiale, unitamente a competenze, esperienze, relazioni e amicizie di cui
vogliamo avvalerci, con umile e mutua collaborazione, guardando al tanto bene
che c'è in tutto il mondo a servizio dell'istituto familiare.
Desideriamo,
infatti, che il "Centro Internazionale Famiglia di Nazareth" divenga un luogo
privilegiato per la diffusione del "Vangelo della Famiglia", una "vetrina" di
tutto il bello, il buono, il vero, il giusto che la famiglia propone e
testimonia nel mondo, coinvolgendo attivamente gli Uffici pastorali delle
Diocesi del mondo, le Università, i Centri Studi dedicati alla famiglia; i
Movimenti, le Comunità, le Associazioni di scopo, tanti benefattori che vedono
nel trinomio "Papa, Famiglia, Terra Santa" un'opportunità nuova e interessante
per sostenere generosamente la causa della famiglia. In definitiva, una sfida
che lanciamo alla nostra coscienza ecclesiale, per dare corso, insieme, alla
Nuova Evangelizzazione.
Questo
nostro tempo, attanagliato da crisi, invoca un'umanità più fraterna, più a
misura di famiglia prima che a misura di Stati e di Mercati. Se una famiglia ci vuole, ne consegue che
anche una casa ci vuole! Ecco perché
vogliamo che la "profezia di Nazareth" non si spenga nel cuore delle Nazioni.
A
Nazareth, luogo dove tutto è cominciato e dove tutto può ricominciare. A
Nazareth, dove l'umanità ha conosciuto il modello certamente irripetibile della
Santa Famiglia, ma che tutti possono apprezzare e imitare.