«Oggi noi
siamo davanti a un bivio drammatico: o imbocchiamo il sentiero della gioia, o
non ci rimane che affondare nelle sabbie mobili della noia. Sì: o la gioia o la
noia. Ma come fa un cristiano spento e triste a portare un messaggio di gioia?
Non è forse una contraddizione in termini?». La domanda posta dal vescovo di
Rimini, Francesco Lambiasi, risuona con particolare eco tra la folla festante
della 42ª Convocazione nazionale. Una risonanza che si riflette sui volti di
ciascuno e che porta alle loro labbra il segno di una presenza viva, e le
parole: eccomi. Mons. Lambiasi è infatti un volto noto della kermesse nazionale
della nostra comunità. E se è vero che, come sottolineato dal presidente
Salvatore Martinez, «gioia chiama gloria e gloria chiama gioia», l’intervento
del Presule, incaricato di portare il suo saluto di indirizzo, risuona su delle
note ben precise, tre in particolare. La prima è quella della filialità, la
stessa che ispirava Santa Margherita di Cortona quando in una locuzione
interiore sentiva sgorgare dal cuore le parole: «Oceano di gioia! Figlia mia!
L’ha detto il mio Dio: Figlia mia!«. «È lo Spirito Santo che ci fa sentire –
non soltanto sapere – che non siamo schiavi, condannati a vivere sotto
l’implacabile minaccia del sibilo terrificante della frusta del padrone. Non
siamo orfani, abbandonati a un destino cinico e baro», spiega infatti Lambiasi.
Di fronte alle convinzioni che talvolta il mondo vuole imporre, il cristiano sa
bene dove volgere lo sguardo. «Ci era stato detto che Dio era un gelido
monarca, ombroso e irascibile… Ma Gesù ci ha detto che Dio è, sì,
l’onnipotente, e però è Padre, e per amore si è reso “onnipotente”. Ricordiamo?»,
domanda con sguardo luminoso il vescovo di Rimini. Passando così alla seconda
nota del suo discorso, che si origina dalla riflessione sulla vicenda di
Zaccheo ma che punta dritta al cuore dell’uomo ancora oggi, più di due millenni
dopo. E che è quella della fraternità, e della “sororità”. «Ci avevano detto
che l’uomo discende dalla scimmia e va verso il nulla. Ci avevano detto che
ognuno di noi è un pacco postale spedito dall’ostetricia all’obitorio. Ma Gesù
ci ha detto che siamo figli teneramente e tenacemente amati dal Padre suo e
Padre nostro», continua Lambiasi.
La terza nota
è quella della contemplazione, sta nel carattere verticale del mistero del
Padre che per Gesù viene evocato dai cieli, che «ne misurano la dimensione
sconfinata» e «ne sondano l’abissale profondità». Sarebbero tanti altri,
riflette tra sé e sé mons. Lambiasi, i colori della fede cristiana di cui
bisognerebbe parlare: gioia come vocazione, comunione, evangelizzazione, festa,
perdono, servizio. Ma è sulla bellezza delle fede cristiana e della
trascendenza che si sofferma il Vescovo, pensando ai più giovani: «Perché tanti
giovani, che non vanno mai in chiesa, scalano le montagne, se non per nuotare
in qualche modo nell’azzurro del cielo?». Il punto allora, la controproposta
offerta dalla Chiesa a un’esistenza fatta di rassegnazione, il metodo per
entrare in maggior intimità con questo Padre che tanto ci ama, è che «bisogna
saper ascoltare il silenzio, assaggiarne il sapore delicato, accoglierne la
quiete rigenerante, fin nelle piaghe più riposte dell’anima… Può accadere
sostando sul Vangelo, lasciandosi ferire da una domanda, lasciandosi
intercettare da una parola che ci risuona nelle fibre più intime dello spirito.
Allora scocca la scintilla del contatto, e zampilla il fiotto della sorgente
interiore». La stessa che Sant’Ignazio di Antiochia, vescovo e martire venerato
tanto dalla Chiesa cattolica quanto da quella ortodossa, scriveva nella sua Lettera
ai romani: «Un’acqua viva mormora dentro di me, e mi dice: vieni al Padre!».
Francesco Gnagni